I Piccoli Diavoli: la banalità del male

di Lorenzo Speltoni

C’è una narrazione che piace tantissimo, in particolar modo a noi occidentali. Ci rassicura,

ci rende sobri, pronti, ci colloca nel posto giusto, ci fa sentire padroni degli eventi e capaci di affrontarli. È una narrazione antichissima, che nasce come balsamo sociale e che, a poco a poco, si è insediata sul trono della normalità. Questa è la narrazione del “Grande Male” e del “Grande Bene”.

In altre parole è la visone duale e macrocosmica dell’etica e della morale: bene contro male, dio contro il diavolo, bianco o nero, “o con noi, o contro di noi”. Non esistono le sfumature, le variazioni, le possibilità e le increspature, esistono solo “la parte giusta” o “la partesbagliata”. Perché è così comodo e rassicurante? Semplicemente perché avere un’idea chiara e incontestabile di chi o cosa sia il proprio “nemico” rende facili due operazioni:

sapere cosa fare della propria vita e sapere cosa NON fare della propria vita. Naturalmente tutti noi sappiamo quanto fondamentale sia impartire la lezione della sostanziale differenza tra il giusto e lo sbagliato in un bambino, ed è ovvio che vi sono dei principi indiscutibili a riguardo, come ad esempio il rispetto della vita e della libertà; tuttavia ogni adulto – forse sarebbe meglio dire “quasi ogni” – è consapevole di come “il mondo dei grandi” sia sostanzialmente simile ad un processo giudiziario da film hollywodiano: si afferma tutto ed il contrario di tutto, in uno show della contraddizione dove ognuno cerca di tirare l’acqua al proprio mulino. In altre parole, la vita e la società non sono semplici da affrontare, ed è per questo che il nostro mondo scivola sempre verso l’autocrazia, come il fiume scivola sempre

verso la foce, quasi spasmodicamente, irrimediabilmente. L’autodeterminazione

è…complessa.

Richiede una serie di requisiti che la maggior parte delle persone rigetta comese il corpo avesse subito una trasfusione di sangue di gruppo diverso dal proprio.

Prima di tutto: decidere comporta l’instaurarsi del dubbio, che a sua volta ci riconnette,

quasi con un filo diretto, ad una sensazione molto più antica e potente: l’angoscia. Provare angoscia è inevitabile per un essere senziente, poiché si sviluppa dal senso di smarrimento nei confronti dell’ignoto di cui siamo diventati consapevoli, millenni addietro, con lo svilupparsi della nostra mente.

“Tutti gli esseri intelligenti sono angosciati. È il destino dell’uomo che riflette un po’… è normale che sia così.

I molteplici interrogativi della vita, del mondo e dell’universo ci richiedono continui adattamenti. Cosa infatti ci spinge avanti se non questa inquietudine? Tutti i passi in avanti dell’umanità, tutte le scoperte scientifiche, artistiche e letterarie sono basati sull’angoscia.

Ma è un’angoscia metafisica, costruttiva, positiva. Diciamo che il dieci per cento di

angoscia è necessaria all’uomo normale.” (P. Daco)

Quando però non si sa gestire l’angoscia, allora il problema diventa insormontabile. È qui

che nascono i Piccoli Diavoli, la deresponsabilizzazione che copre il proprio fetore cospargendosi con unguenti di innocenza, di inconsapevolezza tanto frivola quanto fasulla.

Colui che, veloce più del suo stesso pensiero, punta il dito con animalesca ferocia, compie solitamente il più vile degli ammutinamenti, quello verso la sua coscienza, il rifiuto della responsabilità.“In questi processi, dove gli imputati erano persone che avevano commesso crimini

“autorizzati”, noi abbiamo preteso che gli esseri umani siano capaci di distinguere il bene dal male anche quando per guidare se stessi non hanno altro che il proprio raziocinio, il quale inoltre può essere completamente frastornato dal fatto che tutti coloro che li circondano hanno altre idee. (…) Oggi, forse, molti riconoscono che non esiste una cosa che si chiama colpa collettiva, e tanto meno una cosa che si chiama innocenza collettiva. In caso contrario nessuno potrebbe mai essere colpevole o innocente.” (H. Arendt)

Il punto, dunque, è questo: se desideriamo modellare la nostra società tendendo a quegli ideali di libertà, saggezza e bellezza che aleggiano eternamente sul nostro capo, ma che

sempre rimangono fantasmatici, trasparenti, inconcreti per certi versi, allora dobbiamoeseguire un esercizio di nobiltà superiore: addomesticare la nostra paura. Forse sto sfociando nell’utopia, forse semplicemente noi, come collettivo, non possiamo costruire un ponte senza travi e senza chiodi. Sono però fermamente convinto che si possa quanto meno tentare singolarmente, se così desidera il cuore di una persona, di arrivare a percepire il proprio limite e di provare a spostare l’asticella anche di una tacca soltanto.

La banalità del male è un fatto sociale, come d’altronde lo è la banalità del bene, questo è chiaro, ma lo è anche la significazione del Vivere, la Volontà di sacralizzare un momento, forse addirittura una vita intera. E se l’impresa ci appare impossibile, allora forse dovremmo prenderci la briga – e chi lo sa, forse l’indicibile piacere – di recitare la Virtù, come se la vita fosse un palcoscenico. Forse nell’impeto dello tsunami sensoriale dell’arte, per qualche istante ci potremmo dimenticare che stiamo recitando, e scambieremmo la finzione con la realtà, ingannando anche quella banalità così pesante e concreta, così terrena e solida.

Un trucco d’artista per dare scacco matto alla nostra immutabile natura, così fragile e spietata.

Dopo tutto, come ebbe a scrivere John Milton nel suo immortale “Paradiso Perduto”: “E s’egli imita la nostra oscurità, chi ci contende Lo imitar la sua luce?”

Note:

P. Daco, Che cos’è la Psicologia, Sansoni, Firenze 1967, p. 258

H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2016, p. 296/298

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