Di L.Speltoni

Non è semplice, oggi, guardare il mondo, con il suo circo di complessità, senza provare un fin troppo nitido senso di ambiguità. Siamo giunti al limite estremo della nostra capacità di adattamento culturale? Naturalmente questo è improbabile, ma ciò non toglie che la transizione epocale che ci sta travolgendo con indomito furore ci ha lasciati storditi, come un pugile aggrappato disperatamente alle corde del ring del progresso.
Ancor più annichilente è il fatto che questo sembra essere un incontro senza fine; non giunge mai il suono della campanella a donarci il riposo ristoratore, a regalarci un poco di tempo per riordinare le idee e fare la conta dei danni e dei guadagni. Non che questa sia una scoperta nuova, sia chiaro: ormai da decenni i sociologi ci raccontano di questa “era fluida”, un’epoca di inconsistenze filosofiche e di flussi sociali inarrestabili, perennemente mutabili, mai stabili.
Le istituzioni, i gruppi, i movimenti hanno perso il loro valore funzionale e vivono (sopravvivono) oggi appesi al loro valore storico/affettivo.
I Gruppi Ideologici sono diventati opere da museo, utili solo per essere studiati in ambito storico. Oggi regna l’individualismo, nel bene e nel male. E in questo festival dell’Io, le regole sociali attendono di essere riscritte, ma rimaniamo sempre con delle bozze,mai complete, mai assolute,
incapaci di slegarcicompletamente dal bisogno dell’assolutismo delle istituzioni, ma al contempo completamente affascinati dal grande mare delle possibilità individuali.
“Una volta spariti gli uffici supremi posti a vigilare sulla regolarità del mondo e a guardia del confine tra giusto e sbagliato, il mondo diventa una gamma infinita di possibilità: un contenitore ricolmo di innumerevoli opportunità ancora da inseguire o già sfumate.
Il numero di possibilità esistenti e superiore – dolorosamente superiore – a quelle che una singola vita, per quanto lunga, avventurosa e industriosa, possa tentare di esplorare e tanto meno cogliere.

È questa infinità di scelte che ha occupato il posto rimasto vacante a seguito della sparizione dell’Ufficio supremo. Non sorprende che di questi tempi non si iscrivano più distopie: il mondo post-fordista, <fluido – moderno> degli individui liberi di scegliere non si preoccupa affatto del sinistro Grande Fratello pronto a punire chi esce dal seminato.
In tale mondo, tuttavia, non c’è molto spazio neanche per il benevolo e premuroso fratello Maggiore, cui ci si poteva rivolgere allorché toccava decidere quali cose valesse la pena fare o avere e che non avrebbe mancato di proteggere il proprio fratellino dai prepotenti che tentavano di impedirglielo; e così si è cessato di scrivere anche le utopie della buona società.
Oggi, per così dire, tutto si riduce all’individuo. Tocca all’individuo scoprire cosa è capace di fare, portare tale capacità al limite estremo e scegliere i fini a cui tale capacità può essere meglio applicata, e cioè la maggiore soddisfazione possibile.
Tocca all’individuo trasformare l’imprevisto in un divertimento. In siffatto mondo c’è ben poco di predeterminato e ancor meno di irrevocabile; ma non esiste neanche una vittoria definitiva.
Perché le possibilità restino infinite, a nessuno è consentito pietrificarsi in una realtà perenne. Meglio che restino liquide e fluide e, con tanto di <data di scadenza>, onde evitare il pericolo che impediscano di cogliere altre opportunità e distruggano sul nascere l’avventura che sta per iniziare.”1
Quello che Bauman ci descrive è uno scenario in cui l’individuo si ritrova sostanzialmente privo di un ideale solido su cui erigere le sue fondamenta, e contemporaneamente rimane invischiato nel gelatinoso limbo dell’impossibilità di adottare un ruolo predefinito da un ente “superiore”.

Chi cresce in questo momento storico è dunque vittima di un paradosso meschino: può, anzi, viene sollecitato alla ricerca della più libera e passionale realizzazione personale, ma, anche se mai dovesse riuscire a trovarla, non saprebbe che farsene, dato che le strutture sociali si stanno sgretolando. Siamo vittime di una libera inutilità.
La centratura verso ogni singola personalità, verso un individualismo così estremo che spesso ama travestirsi con gli abiti dell’asocialità, ci ha portato a svuotare di significato ogni traguardo e successo. In altre parole, se definiamo che tutti sono speciali, automaticamente stiamo affermando che non lo è nessuno. Siamo dei dispersi che raccolgono diamanti tra le dune di un deserto.
Nietzsche previde il tracollo del sistema in quell’immagine essenziale e potentissima che è “la morte di Dio”, ovvero la morte di quel significato sul quale si ergeva l’intero sistema economico, sociale e filosofico dell’occidente. Il filosofo tedesco aveva però teorizzato anche la natura del così detto spirito libero, che avrebbe contrastato, nella sua consistenza quale “eccezione alla massa”, l’andamento decadente e arcaico della società.
“Lo spirito libero è l’eccezione: pensa diversamente da quanto dovrebbe di regola pensare in base alle sue origini, al suo ambiente, al suo ceto sociale e al suo ufficio o in base alle opinioni dominanti; poiché consapevole della complessità delle motivazioni e della molteplicità dei suoi punti di vista e avverso al fanatismo di chi pretende possedere la verità assoluta, e cioè dell’uomo delle convinzioni, che è esponente dell’età arretrata dell’innocenza teorica.
Scegliere la libertà dello spirito comporta abbandonare costantemente i nostri ideali (divenendo traditori e commettendo infedeltà), rinunciare, senza rammarico e senza risentimento, a quasi tutto quello che ha importanza agli occhi degli altri per un sollevarsi libero e senza paura al di sopra di uomini, costumi, leggi e tradizionali valutazioni delle cose che consente di superare i limiti della individualità comprendendo e vivendo in sé l’intera coscienza dell’umanità. La libertà da ogni certezza illusoria, acquisita mediante il sapere, condanna lo spirito libero alla solitudine, ma non alla tristezza e all’infelicità.”2
Una prospettiva titanica e aulica e come tale, adottabile da pochi. Forse il grande errore del nostro tempo è stato il credere che la grande ordalia che è la solitudine dell’individualismo sarebbe stata meno ardua da sopportare con il godimento dei suoi dolcissimi frutti, ma il mondo è di per sé stesso un organismo complesso, da cui non ci si può slegare a cuor leggero. Nella grande promessa di una felicità fai-da-tè, costruita su misura, ci siamo intossicati e abbiamo sviluppato una dipendenza terribile, quella per il consumo. Non avendo più uno scopo idealistico ci siamo cimentati nel collezionismo di inutili surrogati del benessere. Siamo incredibilmente cascati dalla padella alla brace, poiché se prima si era costretti a rispondere delle proprie azioni ad un sistema sociale unico e compatto (il Grande

fratello della citazione precedente di Bauman) ora siamo obbligati a rispondere alle migliaia di teste degli individui, ognuno convinto di poter esprimere diritti, giudizi e sentenze a prescindere da qualsiasi contestualizzazione. È buffo che nell’era dell’egoismo si sia completamente dipendenti del sistema social, una terra di nessuno dove regna la legge della tendenza. Siamo non solo più influenzabili di quanto non lo fossimo in passato, ma siamo anche alla mercé di un flusso inarrestabile di cambiamenti fulminei: quello che oggi è giusto, nel giro di un battito di ciglia diviene errato.
Come lucciole catturate da un ragazzino in una sera d’estate, vaghiamo agitandoci spasmodicamente all’interno di un barattolo di vetro, messi perennemente in vetrina, vendendo – o credendo di farlo – la nostra “personalità che agisce nella quotidianità”, convinti che brillando come diamanti impazziti3 si stia facendo la mossa giusta per arrivare a capire qualcosa di noi stessi, per sentirci realizzati.
Siamo schiavi, tossicodipendenti da surrogato di espressionismo libero. La panoramica che si palesa è assai più intricata e assurda di quanto possa apparire ad un primo sguardo; è un vero e proprio paradosso patafisico, in cui due metà dell’Io si litigano il senso della vita, strappando la nostra personalità verso due poli opposti: da un lato l’obbedienza assoluta a dei modelli da seguire
– curioso che sia nato nella storia recente il fenomeno degli influencer – e dall’altra sponda
la perentoria affermazione di una inderogabile rinuncia all’essere “uguali agli altri”.
Come ebbe a scrivere Jean Baudrillard;
“È vero che oggi abbiamo a che fare con una situazione in cui siamo assaliti da una quantità incalcolabile di modelli, di comportamenti obbligati, imperativi categorici, morali, eccetera appunto nella maggior parte dei casi la vita cade o nella conformità totale o nella resistenza costante, in un rifiuto completo: <No! Non c’è nulla in cui voglio fissare la mia volontà, non voglio essere né questo né quello perché sono dei modelli di simulazione già predisposti>.
Dove l’identità in questa storia, in questo ambiente naturale completamente assediato dai modelli? Si può respingerli ed è vero che c’è un acting – out (passaggio all’atto) che consiste nella negazione di tutti i modelli punto questo è già qualcosa, almeno, anche se non produce la realizzazione armoniosa di qualcosa che è già stato e che malgrado tutto, si ritrova ad affermarsi di nuovo punto siamo in una situazione dove la parte più chiara della nostra energia passa tramite la negazione, il rifiuto, la resistenza, dove non si esprime davvero una autenticità ma una forma di sfida a: <Non sarò quello che volete che io sia!>
(…) Appena esci dai tuoi propri limiti, dal tuo proprio piccolo circuito, sei sottomesso alla pressione esistenziale e sociale, e qui non esistono buone notizie: cadiamo cioè all’interno di un dominio che era al tempo stesso quello dell’eccitazione, dell’esacerbazione delle cose e dell’indifferenza totale.

All’infuori del nostro circuito ci si sente indifferenti, non riusciamo più a trovare un gioco che valga la pena di essere giocato secondo regole di cui ci si senta responsabili.”5
Può darsi che la buca che ci ha fatto inciampare sia l’aver dato per scontato che la libertà d’espressione implicasse già di per sé il sapere che cosa dover esprimere. Ma tra tutte le realtà che l’uomo fatica a comprendere, quella di sé stesso è senza ombra di dubbio la più ardua da decifrare. Compito fra i compiti, imparare a leggere la propria natura è la máxima delle sfide. I greci crearono un concetto straordinario per descrivere ed enfatizzare la perfetta conoscenza di sé: eudaimonia, εὐδαιμονία, un termine composto da εὖ “bene” e
δαίμων “demone; sorte”.
Conoscere il proprio daimon6, il proprio demone, la propria vocazione, il proprio destino.
Per riuscirci è necessario, in primis, destarsi dall’ipnosi collettiva della realtà competitiva ed iper veloce in cui siamo intrappolati. Urge un ritorno alla semina della cultura, alla raccolta della conoscenza. Un ritorno spumeggiante al desiderio d’avventura, e se è fin troppo veroche il mondo ha ridotto ad un numero esiguo i suoi misteri, ora che tutto è a portata di smartphone, rimane assolutamente inalterata l’occasione di avventurarsi nei meandri di noi stessi; rimane incorrotta la possibilità di metamorfizzarci, di apprendere, di modellare.
Forse la risposta più sensata all’ansia e al nichilismo che strangolano le nuove generazioni, è la forza di un atto coraggioso, ovvero l’affermarsi come polivalenti, come entità esistenti, che godono del piacere della consapevolezza non per mercificarla, in cambio dell’approvazione degli altri, ma per goderne intimamente, seduti sulla rupe del proprio Animo osservando lo sconfinato orizzonte della propria Interiorità.
Nell’era artificiale, dove si apprendono nozioni complementari alla propria funzione, la serenità – forse non la felicità, che è un Dio così scaltro che smette di esistere allorquando si riesce a intravederne il volto – può giungere dall’organica, viva espansione della propria mente. Un atto di eroismo verso sé stessi, ma non un eroismo da celebrazione, quello è fin troppo abusato, giacché “la banalità del male ha molto in comune con la banalità dell’eroismo. Né l’attributo è la diretta conseguenza di tendenze disposizionali uniche; non esistono speciali attributi interiori né della patologia né della bontà che risiedano nella psiche umana o nel genoma umano. Entrambe le condizioni emergono in particolari situazioni, in particolari circostanze, quando le forze situazionali svolgono un ruolo determinante nell’indurre singoli individui a varcare la frontiera decisionale fra inerzia e
azione”.7

No, l’eroismo di cui parlo è l’intima consapevolezza di sé, è il coraggio di amare la vita nonostante il grande diluvio d’ombra e d’angoscia che copre il mondo come una tetra sindone. Ci sono ancora vita e significato, nel mondo? Io ritengo di sì, ma per vederli serve il coraggio di un trapianto d’occhi: rinunciare ad una vista statica per acquisirne una dinamica, poliedrica, che rigetta la passiva acquisizione, ed accoglie l’attiva mobilità dell’apprendimento. Occorre inglobare avidamente, indomabilmente lo sguardo del Polimate, cioè di chi sceglie di divenire amante della filosofia del Polymathes8, ovvero donarsi in carne e pensiero alla prosperità della cultura e della conoscenza, un ménage à trois in cui sono coinvolti Arte e Scienza; un perfetto equilibrio fra ragione e sentimento che individua la vetta della sua massima espressione nell’incapacità di accettare la stagnazione dell’apprendimento. Una visione non certamente banale né tanto meno semplice, soprattutto se sostenuta di questi tempi, ma come ci insegna l’ispirazione di latina origine:
Per aspera ad astra. Attraverso le asperità, alle stelle.
Lorenzo Speltoni
1 Z. Bauman, Modernità Liquida, Laterza, Bari 2011, p. 61
2 G.M. Bertin, introduzione a Umano, troppo umano, Newton, Roma 1990, p. 9
3 Un riferimento al celebre brano Shine on you crazy diamond del gruppo musicale Pink Floyd, scritto nel 1974
4 La Patafisica è un movimento filosofico – scientifico ideato da Alfred Jarry attorno al 1911, che ha il compito di studiare l’assurdo, il paradossale, l’irrazionale e l’astratto. Letteralmente patafisica (in francese ‘pataphysique, formazione scherzosa e arbitraria derivante dal greco: (e)p(i)-(me)ta-physique , significa: ciò che è vicino (epì) a ciò che viene dopo (metà) la fisica (per “dopo la fisica” s’intende la metafisica). N.d.a.
5 J. Baudrillard, Patafisica e arte del vedere, Giunti, Milano 2006, p. 65-66
6 Per approfondimenti si consiglia: C. Zaffarana, Demoni storia e forme di un archetipo, Centro studi e ricerche C.T.A. 102, Valle San Nicolao BI, 2021
7 P. Zimbardo, L’effetto Lucifero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, p. 655 – 656
8 Dal greco, è il risultato dell’unione di due parole, Poly, “tanto”, e manthanei, “imparare”: <Colui che ha imparato
molto> N.d.a.
Lorenzo Speltoni
“Lorenzo Speltoni è uno scrittore e libero ricercatore. Nel 2021 ha pubblicato il suo primo saggio “Le tecniche dell’estasi” con la casa editrice Forma mentis ed ha all’attivo diversi articoli e conferenze su temi antropologici. Da diversi anni è membro attivo del Centro Studi e Ricerche C.T.A. 102 con cui condivide progetti ed ideali”

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