“(…)che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa
erba né biada in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lacrima e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce”.

“Come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede […]. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti”.[3]
Tanto nell’iconografia, quanto nella letteratura, il Cristianesimo ha ampiamente celebrato la Fenice quale simbolo di purezza, nobiltà e, soprattutto, resurrezione. Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, la Trinità pone in essere una azione salvifica che culmina nella proclamazione della risurrezione dei morti, alla fine dei tempi. Come Cristo è risorto, così i “giusti”, dopo la morte, risorgeranno e vivranno eternamente beati nella loro anima ma anche nei loro corpi mortali.
La fede nella resurrezione di Cristo e dei giusti è un dato fondamentale nel Cristianesimo, soprattutto in quello delle origini – Gesù stesso proclama: “Io sono la risurrezione e la vita”[4] – ma è anche uno dei concetti che ha incontrato maggior incredulità ed opposizione. Non fa perciò stupore il fatto che i Cristiani abbiano precocemente raccolto e reinterpretato una immagine celebre, suggestiva e potente come quella della Fenice per spiegare e difendere l’idea tanto della resurrezione di Cristo quanto dei fedeli.
Fino ad oggi, le prime raffigurazioni di questo animale fantastico risalgono al IV secolo e si trovano nelle Catacombe: consideriamo, ad esempio, le rappresentazioni che si trovano nella vastissima area di San Callisto[5] e nel cimitero ad Decimum. Ancora, nei secoli successivi, la Fenice appare quale elemento decorativo per i sarcofagi, dimostrando così l’importanza ed il perdurare della sua associazione con la morte di coloro che hanno fede in Cristo, per i quali dev’essere costantemente ribadita l’importanza della speranza e della fede in un passaggio temporaneo che conduce alla resurrezione in Cristo della carne.
(f.1)
Non raramente, per altro, alla Fenice è accostata l’immagine della palma: così avviene, ad esempio, nella raffigurazione che si trova presso le citate catacombe ad Decimum, sulla Via Latina. Il significato di questa associazione è complesso: innanzitutto, in Greco, il termine impiegato per indicare la Fenice ( Φοῖνιξ) è molto simile a quello impiegato per indicare l’albero della palma (φυίνιξ); anche la palma, poi, indica la resurrezione dei Santi e dei Martiri che quindi è rafforzata dall’associazione con l’uccello mitico che vive per secoli e rinasce dalle proprie ceneri.
Non a caso, fra le rappresentazioni più diffuse e amate della Fenice vi è proprio quella dell’uccello avvolto dalle fiamme, come avviene, ad esempio, nell’antichissimo Battistero di San Giovanni a Napoli, edificato verso la fine del IV secolo dal vescovo Severo. Il tamburo e la cupola presentano una complessa decorazione: una croce monogrammatica sormontata dalla mano del Padre guida l’occhio verso la cornice dove si trova una fenice nimbata, simbolo del Figlio risorto. (f.1)
La Fenice appare precocemente anche nelle fonti letterarie.
Ad esempio, fra le prime citazioni possiamo ricordare l’anonimo Physiologus,[6]scritto presso Alessandria nel corso del II secolo. Scopo dell’autore è mostrare quanto vana fosse l’ira dei Giudei nei confronti del Cristo, quando questo afferma che sua è la resurrezione:[7] “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio. Sorse di nuovo dissenso tra i Giudei per queste parole. Molti di essi dicevano: Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascoltare? Altri invece dicevano: Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi dei ciechi?”.
L’anonimo ricorre dunque all’immagine e al mito della Fenice e racconta per questo che l’uccello di Eliopoli, prima di morire presso il fuoco del sacro altare, riposa fra gli alberi del Libano.
Fra le più antiche presenze della Fenice in ambito letterario cristiano va poi segnalata la Lettera a Corinzi di Papa Clemente I, databile agli ultimi anni dell’impero di Domiziano.
XXV.1. Consideriamo lo strano prodigio che avviene nelle terre d’oriente, cioè in quelle vicino all’Arabia. 2. Vi è un uccello chiamato fenice: è il solo della specie e vive cinquecento anni. Quando è vicino a morire si fa un nido con incenso, mirra ed altri aromi e giunta l’ora vi entra e muore (…) Poi, divenuto forte prende quel nido in cui sono le ossa del suo genitore e portandoselo passa dall’Arabia all’Egitto nella città chiamata Eliopoli.
Oltre al celebre De ave phoenice – una lunga allegoria della resurrezione cristica per tramite della Fenice da attribuirsi, forse, a Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio,[8] merita una citazione Origene di Alessandria, vissuto fra il II ed il III secolo, che nella sua opera contro il filosofo medioplatonico Celso,[9] impiega l’immagine della Fenice. Anche Ambrogio ricorre alla Fenice per creare una allegoria col Cristo[10] e l’apologeta Tertulliano, nel De resurrectione mortuorum,[11] si riferisce alla Fenice per esaltare il tema della resurrezione. Celebre poi è l’uso della Fenice da parte del Vescovo Zeno di Verona.[12]
Da dove arriva, al Cristianesimo, l’immagine della Fenice?
A questo mitico uccello ci si riferisce all’interno dell’Antico Testamento: si tratta di un unicum legato alla figura di Giobbe, che impiega l’immagine della Fenice per creare un parallelismo con la propria condizione. Il mitico uccello è qui chiamato in causa solo in relazione alla sua longevità e, come accennato, non troviamo altre attestazioni della Fenice di matrice culturale ebraica.
“Potessi tornare com’ero ai mesi andati,
ai giorni in cui Dio vegliava su di me,
quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo
(…)Quando uscivo verso la porta della città
e sulla piazza ponevo il mio seggio,
vedendomi, i giovani si ritiravano
(…) Ero rivestito di giustizia come di un abito,
come mantello e turbante era la mia equità.
(…)Spirerò nel mio nido
e moltiplicherò i miei giorni come la fenice.
Le mie radici si estenderanno fino all’acqua
e la rugiada di notte si poserà sul mio ramo.
La mia gloria si rinnoverà in me
e il mio arco si rinforzerà nella mia mano”.[13]

E’ tuttavia lecito ritenere che, al Cristianesimo, l’immagine dell’uccello solare che rinasce dalle sue proprie ceneri, giacendo nel nido di spezie e odori, non provenga dal vicino oriente ma direttamente dalla cultura greca e romana.
Nel mondo greco, la prima voce a raccontare le imprese della Fenice spetta allo storico Erodoto:[14]
“C’è anche un altro uccello sacro, che si chiama fenice. Io non l’ho mai visto, se non dipinto; poiché, tra l’altro, compare tra loro soltanto raramente: ogni cinquecento anni, come affermano i sacerdoti di Eliopoli; e si fa vedere, dicono, quando gli sia morto il padre. Per dimensioni e per forma, se è come lo si dipinge, è così: le penne sono parte color d’oro, parte color rosso vivo: soprattutto esso è molto somigliante all’aquila per contorni e per grandezza. Dicono che esso compia un’impresa di questo genere (ma, secondo me, il racconto non è credibile): cioè, partendo dall’Arabia, porta nel tempio del Sole il padre, tutto avvolto nella mirra, e lo seppellisce nel santuario”.
Celebre è poi la trattazione che ne fa Ovidio all’interno del Le Metamorfosi.[15]
“Tutti gli esseri viventi, comunque, traggono origine da altri;
l’unico a nascere riproducendosi da sé è un uccello
che gli Assiri chiamano fenice. Non di erbe o di frumento vive,
ma di lacrime d’incenso e stille d’amomo,
e quando giunge a cinque secoli di vita,
se ne va in cima a una tremula palma e con gli artigli,
col suo becco immacolato si costruisce un nido tra il fogliame.
E non appena sul fondo ha steso foglie di cassia, spighe
di nardo fragrante, cannella sminuzzata e bionda mirra,
vi si adagia e conclude la sua vita fra gli aromi.
Allora, si dice, dal corpo paterno rinasce un piccolo
di fenice, che è destinato a vivere altrettanti anni.
E quando l’età gli ha dato le forze per reggere alla fatica,
libera i rami sulla cima della pianta dal peso del nido,
religiosamente prende con sé la culla, sepolcro del padre,
e, giunto sull’alito dell’aria alla città di Iperione,
davanti alle porte sacre del suo tempio la posa”
Rimane il dato della vita di questo straordinario uccello, che dura secoli e così rimane la meta dell’Egitto. La Fenice si ciba di sostanze rare e odori preziosi e fra questi compie anche il suo ultimo rituale creando da se stessa una novella Fenice.
Anche Plinio ci parla della Fenice, nel X libro della Naturalis Historia: [16] la Fenice è un esemplare unico, assomiglia ad un’aquila color oro e porpora.
Tacito ci fornisce ulteriori particolari:
XXVIII. “Essendo consoli Paulo Fabio, e L. Vitellio, voltati molti secoli, venne la fenice in Egitto: materia a i dotti della contrada e della Grecia, di molto discorrere di tal miracolo. E degno fia, ove convengono, ove discordano raccontare. Tutti scrivono esser quest’uccello sagrato al sole: nel becco e penne seviziate, diverso dagli altri. Degli anni, la più. comune è, che ella venga ogni cinquecento: alcuni affermano, mille quattrocento sessantuno: e che un’altra al tempo di Sesostride, altra di Amaside, la terza, di Tolomeo terzo re di Macedonia, volarono nella città d’Eliopoli, con gran seguito d’altri, uccelli, corsi alla forma nuova. E’ molto scura l’antichità, da Tolomeo a Tiberio fu meno di dugencinquant’anni; onde alcuni tennero questa fenice non vera, nè venuta d’Arabia; e niente, aver fatto dell’antica memoria, cioè, che forniti gli anni, vicina al morire fa in suo paese suo nidio: gettavi il seme; del nato e allevato feniciotto la prima cura è di seppellire il padre; accaso noi fa, ma provasi con un peso di mirra a far lungo volo; se gli riesce, si leva il padre in collo, e in su l’altare del sole lo porta e arde; cose incerte, e contigiate di favole19. Ma non si dubita che qualche volta non si vegga questo uccello in Egitto”. [17]
Citiamo infine il poema di Claudiano, composto intorno al V secolo:
“(…) Un misterioso fuoco promana dai suoi occhi, una fiammeggiante.
Aureola circonda il suo capo. Una stella congenita sulla rutilante testa
è sollevata da un pennacchio crestato
che con serena luce le tenebre disgombra: le zampe sono colorate d’ostro.
Le ali sono più veloci degli zefiri, circondate di ceruleo smalto,
arricchite in cima di sparse macchie d’oro.
Questo uccello non nasce da parto concepito o da seme,
ma è padre e figlio di sé stesso (…)”. [18]
Corinna è autrice e ricercatrice indipendente. Ha pubblicato diversi saggi sul rapporto tra potere, simboli e religione, con uno sguardo sempre critico e non allineato. È direttrice del Centro Studi e Ricerche C.T.A.102, progetto di divulgazione storico-culturale seguito da una solida community di lettori e ascoltatori.
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LA STORIA INFINITA: ANALISI FILOSOFICA ED ESOTERICA
BIBLIOGRAFIA
B.Basile, La fenice. Da Claudiano a Tasso, Carrocci, Roma, 2004.
F.Bisconti, Aspetti e significati del simbolo della fenice nella letteratura e nell’arte del cristianesimo primitivo, Vetera Christianorum.16; 1979.
R. Capelli; F. Zambon, Bestiari tardoantici e medievali. I testi fondamentali della zoologia sacra cristiana, Bompiani, Milano, 2018.
M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Einaudi, Torino, 2012.
A. Zambon (a cura di), Physiologus, Adelphi; 1975.
Id., A. Grossato, Il mito della Fenice in Oriente e in Occidente, Marsilio, Venezia, 2004.
[1] Fenice. Bestiario di Aberdeen. XII secolo. Biblioteca dell’Università di Aberdeen, folio 56 recto.
[2] Inf. XXIV, 107-111
[3] 1 Cor 15,12-14.20
[4] Gv 11,25
[5] All’inizio del II secolo,i Cristiani iniziarono a seppellire i defunti in aree sotterranee, le catacombe, appunto. Le Catacombe di San Callisto sono tra le più grandi e importanti di Roma. sorsero verso la metà del II secolo e si configurano secondo una rete di gallerie lunghe quasi venti chilometri, disposte su più piani, fino a venti metri di profondità. [5]
[6] Cf. Physiologus, 7
[7] Gv 10:17-21
[8] Non tutti gli studiosi sono concordi sull’attribuzione.
[9] Origene, Contro Celso, 4.9
[10] Ambrogio, Examerone, 7,22,79.
[11] Tertulliano, De Resurrectione mortuorum,12
[12] Zeno, sermone, 1,2,9,20
[13] (CEI2008) Giobbe 29.
[14] Erodoto, Le storie II, 2,73.
[15] Ovidio, Metamorfosi, XV. 389-407.
[16] Plinio il Vecchio, Historia Naturalis, X (2).
[17] Tacito, Annales, 6,28.
[18] Claudiano, Phoenix, vv.17- 24.

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